Biomeccanica Implantare. “Dal Preload al Cantilever”
CONCETTI GENERALI DI BIOMECCANICA
II successo clinico e la longevità degli impianti endossei, nella loro funzione di “monconi portatori di carico”, dipende dai fattori meccanici, che ne determinano la funzione.
Dopo aver ottenuto una stabilità primaria, un’adeguata situazione ossea crestale e gengivale, gli stress meccanici sono la causa principale della perdita di osso iniziale attorno agli impianti.
Dopo la fase chirurgica e la riabilitazione protesica, gli stress e i carichi nocivi, applicati agli impianti e ai tessuti circostanti, derivano essenzialmente dai contatti occlusali.
Ovviamente, il carico “Statico” in implanto-protesi va eliminato subito nel momento della realizzazione (assemblamento) dell’implanto-protesi.
“Le nostre implanto-protesi non debbono soffrire di carichi statici legati all’imprecisione tra le varie componenti protesiche”. (angelo bernardis)

Un limite che determina questi pre-carichi (preload) è sostanzialmente dovuto all’inevitabile imprecisione esistente fra le differenti componenti protesiche: fixture, abutment e protesi.
Sorvolando le protesi cementate su abutment, ove con la cementazione assorbe fino a 40 micron di errore, noi affronteremo il tema del precarico, che presentano le implanto-protesi avvitate.
Precarico
Il preload, non considera i carichi occlusali, che si determinano durante i cicli masticatori, in condizioni fisiologiche, solitamente compresi tra i 100 e i 400 N.
Va ricordato che questi vengono trasmessi “direttamente” all’osso, senza l’azione ammortizzante del legamento parodontale.
Si può quindi immaginare quanto siano pericolosi i sovraccarichi, dovuti a parafunzioni (serramento e bruxismo).
In tal caso, le forze sviluppate possono raggiungere gli 800N e le componenti eccentriche possono superare di gran lunga quelle assiali.
Queste forze, ad esempio, possono essere amplificate dal braccio di leva generato dai cantilever (estensioni a sbalzo mesiali o distali dei ponti) e dalla lunghezza della corona protesica.
Quest’ultima è, a sua volta, dipendente dallo spazio intermascellare esistente, nonché dall’ampiezza della superficie occlusale.
Per ridurre tali forze occlusali e trasmettere un carico corretto al tessuto osseo si può agire su diversi punti, come: l’inserimento degli impianti (posizione, numero, lunghezza, diametro); e la progettazione della protesi (altezza e larghezza delle corone, splintaggio degli impianti tra di loro, schema occlusale)
Fit e Passività
Però, per garantire la maggior durata nel tempo dell’osteointegrazione, l’unione (splintaggio) di due o più impianti richiede la realizzazione di protesi, che devono rispettare due requisiti fondamentali:
– Precisione del fit
– Passività
Idealmente, una protesi dovrebbe garantire una corretta chiusura marginale sull’abutment (precisione del fit) per limitare l’infiltrazione batterica marginale.
Nello stesso tempo, essa dovrebbe garantire un’inserzione passiva (passività), senza esercitare trazione sugli impianti e, dunque, sul tessuto osseo.
REGOLA FONDAMENTALE:
In assenza, quindi, di funzione masticatoria, ossia di carichi funzionali, nessuna forza dovrebbe essere applicata agli impianti dentali.
Tuttavia, passività e precisione del fit sono due caratteristiche difficili da ottenere contemporaneamente.
Il numero dei passaggi clinici e di laboratorio e i differenti materiali utilizzati nella realizzazione delle protesi implantari sono responsabili di deformazioni e, quindi, errori, che sono difficili da prevedere e controllare.
Tanto più la travata protesica tende alla passività, tanto più diminuisce la precisione marginale e, viceversa, tanto più la travata protesica è precisa tanto meno essa risulta passiva ed il clinico avverte elevata frizione sui monconi, durante l’inserzione.
Questa frizione si traduce in una forza costante, che viene applicato sull’interfaccia osso-impianto e che si viene a sommare ai carichi masticatori: tale forza viene definita precarico (preload).
Bisogna, quindi, adottare una metodica che sia in grado di garantire un buon bilanciamento tra passività e precisione del fit, limitando le possibilità di generare un preload potenzialmente dannoso.
La vite di connessione
In questo, svolge un ruolo fondamentale la vite di connessione, che però tanto bistratta sembra assumere anche un’importanza minore rispetto all’impiego delle connessioni conometriche ed, ancor più, in presenza di cono morse.
Cercherò di spiegare proprio in funzione del rapporto inverso (iperbole) fra fit e passività, l’importanza di questo aspetto molto trascurato dai vari Autori.

Partiamo dal concetto chiaro a tutti, che la connessione “cono morse” fra abutment e fixture, con cono morse inferiore ai 5° gradi, sia fondamentale per garantire un sigillo batterico e, soprattutto, un’assenza di micro-movimenti impianto-moncone.
Questo porterebbe a supporre che l’assoluta stabilità tra impianto e moncone (massimo fit) andrebbe a scaricare tutte le forze su tutto l’impianto e non solo nella zona coronale.
Questo che appare da subito la “conditio sine qua non”, per evitare qualunque micromovimento su implanto-protesi su singoli elementi, diviene nella realizzazione di implanto-protesi su più elementi, tipo AllonFour e/o AllonSix, l’elemento di maggior rischio per l’interfaccia osso-impianto, senza considerare i carichi funzionali: masticatori e parafunzioni.
Infatti, un fit eccessivo fra abutment e fixture non sarebbe in grado di assorbire le tensioni fra M.U.A. e torrette, trasmettendo le tensioni di avvitamento della barra protesica.
Non a caso in questo la connessione fra M.U.A. e torrette lavora con un certo grado di libertà.
M.U.A. Multi-Unit-Abutment
La protesi connessa con viti ai M.U.A. andrebbe a compensare gli errori fra fit e passività, liberando l’interfaccia osso-impianto da sgradevoli carichi torsionali con momenti flettenti, generanti tensioni tangenziali o shear stress.
La vite di connessione, fra abutment e fixture, come quella fra crown-protesi e abutment, deve avvitarsi senza alcuna resistenza e frizione.
Una volta inserita la vite nel suo alloggiamento ed iniziato l’avvitamento, in cui il moto di rotazione della vite si trasforma in un moto di avanzamento (passo=angolo 360°).
Questa fase avviene senza sensibile attrito e quindi applicando un bassissimo torque.
Però, quando la testa della vite raggiunge la battuta non può più avanzare e diventa difficoltoso avvitarla ulteriormente.
Se si applica un torque elevato la vite ruota ancora, la parte filettata della vite scende all’interno del foro filettato, ma la testa rimane in battuta con il primo componente senza seguire il filetto.
Ciò produce un allungamento del fusto della vite (il fusto è quella parte compresa tra la testa e il primo filetto in presa).
L’aumento del torque di serraggio aumenta però la forza di trazione e lo sforzo nel fusto.
Sforzo elastico e strain (deformazione plastica)
È importante che lo sforzo rimanga nel campo elastico del materiale con cui è fabbricata la vite.
Se il torque è eccessivo lo sforzo eccede il limite elastico e quindi si produce una deformazione plastica del fusto della vite o dei filetti in presa.
In questo modo, si riduce la forza di contatto e si danneggia la vite stessa.
Questa non è più in grado di mantenere il serraggio corretto.
Sia un serraggio insufficiente che eccessivo possono quindi portare allo svitamento della vite.
E’ quindi evidente che la tenuta della connessione tramite la vite di serraggio è negativamente influenzata dagli errori e dalle imprecisioni di accoppiamento delle protesi, definiti “misfit” = disattamento, cattivo adattamento.
Misfit
Il più semplice caso di misfit si ha con un ponte, sostenuto da due soli impianti, che presenta un errore di interasse: la distanza tra gli impianti e tra i siti di connessione del ponte è diversa, ad esempio, è maggiore quella tra gli impianti.
Nell’avvitare o nel cementare il ponte sugli impianti il ponte deve essere allungato e il richiamo elastico dovuto alla deformazione del materiale induce uno stato di sforzo nell’osso perimplantare.
Questo sforzo non dipende dal carico masticatorio applicato sulle corone protesiche ed è quindi uno sforzo constante simile ad un carico ortodontico che può indurre il rimodellamento dell’osso.
Cause di misfit
Quattro sono i possibili errori che possono indurre misfit in un ponte dentale sostenuto da due soli impianti.
La prima tipologia di errore è quella di lunghezza con errore di interasse, precedentemente descritta.
Il secondo caso è l’errore di taglio, in cui la forzatura del ponte sugli impianti induce uno sforzo di taglio nel ponte (errore in altezza).
Il terzo errore si considera quello di rotazione rispetto ad un asse perpendicolare all’asse lungo del ponte. È definito errore di flessione perché la forzatura del ponte sugli impianti induce uno sforzo di flessione nel ponte.
Il quarto errore è l’errore di rotazione, rispetto ad un asse parallelo all’asse lungo del ponte, ed è chiamato errore di torsione, perché la forzatura del ponte sugli impianti provoca uno sforzo di torsione nel ponte.
L’errore di misfit è la risultante di più errori singoli, che sono dovuti al numero dei passaggi clinici e di laboratorio ed ai materiali che vengono utilizzati per la realizzazione delle protesi.
In presenza di misfit, il bloccaggio forzato della protesi con le viti di connessione, ma anche con la cementazione, genera un preload incontrollabile sull’interfaccia osso-impianto, mettendo in pericolo l’osteointegrazione.
Segnali di allarme di misfit
A livello clinico, in caso di misfit e preload, il primo segnale di allarme è data dalla decementazione della protesi o dallo svitamento della vite di fissazione protesica o dell’abutment oppure dalla loro rottura.
In particolare, quando le forze sono particolarmente intense ed improvvise, il sovraccarico viene trasmesso direttamente all’impianto con possibilità di frattura dello stesso o di cedimento dell’ interfaccia osso-impianto con perdita di osteointegrazione.
Per questo deve esssere chiaro che la protesi non deve “gravare” direttamente sull’interfaccia osso-impianto, sede dell’osteointegrazione, già tanto difficile da ottenere con carico immediato, ma su un elemento di “tolleranza” interposto fra fixture e crown.
Ciò si ottiene attivando la tensegrità per rispsramiare l’interfaccia osso-impianto in accordo con la seconda legge di Wolf, oppure si può “dissipare” grazie a differenti tolleranze fra abutment e fixture oppure fra M.U.A. e protesi (crown).
Cone Morse
Connessioni “cono morse” sotto i 5° tra abutment e fixture, che tanto sono amate per loro stabilità e ritenzione (Tenuta), e per il sigillo marginale a prova di microbi, presentano il rischio di trasmettere in modo invariato sull’interfaccia osso-impianto tutti i carichi protesici.
Questi carichi sono: statici (preload) e dinamici (masticatori e parafunzioni) minando l’osteointegrazione, purtroppo, in assenza di un sistema “resiliente”, quale il legamento alveolo-dentale.
Ed ancora una volta il giusto equilibrio fra Fit e Passività viene nuovamente a ricordarci che favorire eccessivamente uno svantaggia l’altro.
Purtroppo, ancora oggi questa è un’annosa questione, che dall’infelice esperienza degli IMZ, ci ha portato verso nuove geometrie implantari con finalità suesposte.
Voglio solo ricordare che autori che utilizzano da anni il cone morse, come connessione abutment-fixture, tendono ad eseguire protesi con elementi singoli, e non utilizzano sistemi a vite, ma a piattaforma o plateau.
In modo differente, autori italiani, che utilizzano impianti monofasici tendono a stabilizzarli se singoli oppure li collegano in riabilitazioni multiple, comunque debbono provvedere a stabilizzare i loro impianti, pena la mancata osteointegrazione.

Il carico protesico
Tutti quindi perseguono l’obiettivo di “minimizzare” il carico protesico sull’interfaccia osso-impianto, per permettere la sopravvivenza nel tempo degli impianti oltre che raggiungere l’osteointegrazione biologica, se eseguono carico immediato.
La nostra scuola di pensiero mira a distribuire i carichi protesici, statici e dinamici, ove non eliminabili, rispettando le regole che abbiamo esposto e che esporremo.
Ma, soprattutto, è sempre nostra premura concepire sistemi implantari, che soddisfino la seconda legge di Wolff, che insieme alla legge di Roux, è alla base del rimodellamento osseo neoapposizionale.
Dopo aver valutato le cause del pre-carico andiamo a considerare la biomeccanica implantare in risposta ai carichi funzionali.
Conoscere tutti i carichi che si trasmettono sull’interfaccia osso-impianto è lo scopo del presente lavoro.
L’occlusione e lo schema occlusale
Le complicanze, riportate negli studi di follow-up, sottolineano come l’occlusione sia uno dei fattori fondamentali per determinare il successo o il fallimento di un impianto.
La scelta di uno schema occlusale per le protesi supportate da impianti è ampia e spesso controversa.
La maggior parte dei concetti sono ricavati dai denti naturali e vengono applicati ai sistemi implantari, senza quasi subire modificazioni.
Il protesista ha responsabilità specifiche nel ridurre al minimo i sovraccarichi all’interfaccia osso-impianto.
Per fare ciò è necessaria una corretta diagnosi che conduca a un piano di trattamento che fornisca un adeguato supporto.
Questo è basato su: fattori di forze individuali del paziente; la costruzione di una protesi passiva di forma e ritenzione adeguate; l’applicazione di un carico progressivo, assiale, puntiforme, senza interferenze occlusali, con adeguati piani di svincolo.
Tutti gli sforzi mirano a migliorare la quantità e la densità dell’osso perimplantare, riducendo il rischio di stress (forze), oltre i limiti fisiologici.
L’elemento finale è lo sviluppo di uno schema occlusale, che minimizzi i fattori di rischio e consenta alla protesi di funzionare in armonia con il resto dell’apparato stomatognatico.
L’osteointegrazione parametro di successo
Ancora troppo spesso l’unico criterio di successo degli impianti dentali è ritenuto essere l’osteointegrazione, trascurando il fatto che l’inserimento di una fixture è finalizzato alla sua protesizzazione.
In sintesi, ottenuta l’osteointegrazione, questa va mantenuta, ed in questo il carico protesico (preload) e masticatorio-parafunzionale gioco un ruolo essenziale, oserei dire, vitale.
Importante è la posizione degli impianti e la loro angolazione, come la quantità e la qualità dei tessuti perimplantari duri e molli, la superficie occlusale, il carico occlusale, i materiali protesici utilizzati e il risultato estetico.
Inoltre, i pazienti sono più disponibili ad accettare un fallimento nella fase chirurgica dell’implantologia piuttosto che un fallimento cosiddetto protesico che avviene dopo mesi dall’inserimento e funzionalizzazione dell’impianto.
Insuccessi dovuti ad occlusioni errate o a carichi non assiali sono difficilmente accettati dai pazienti che per mesi hanno portato restaurazioni proteiche su impianti.
Per cui il protesista ha un compito più problematico e difficoltoso, rispetto al chirurgo.
Impianti e carico occlusale
Allora, partiamo da un assunto: “Gli impianti dentali quando vengono messi in funzione, sono soggetti ai carichi occlusali”.

Tali carichi possono variare significativamente in direzione, grandezza, frequenza, durata e in relazione alle eventuali parafunzioni del paziente e possono determinare delle modificazioni all’interno del sistema implantoprotesico tali da portare al fallimento dell’impianto.
Ci sono così tante variabili che influenzano il trattamento con impianti, che sembra impossibile controllare tutte le variabili o fattori.
Controllare le variabili, dopo averle classificate, è il nostro lavoro matematico.
Una frase deve scaturire:” ELEMENTARE WATSON”
I risultati di due differenti trattamenti implantoprotesici portano, a breve termine, a risultati identici, mentre per effettuare un trattamento che comporti meno rischi, a lungo termine, è necessario un approccio biomeccanico ineccepibile.
Fisica applicata all’implantologia
In implantoprotesi si impiega la Fisica meccanica, Statica e Dinamica.
Meccanicamente, la forza risponde ai principi della dinamica: inerzia, azione e reazione. La risposta “dinamica” di un corpo ad una forza dipende dalla presenza o meno di un vincolo (deformazione o movimento).
Effetti statici effetti dinamici
In generale, una forza applicata ad un corpo, libero di muoversi, lo mette in movimento e la forza produce quindi effetti dinamici; mentre, se il corpo al quale è applicata la forza non è libero di muoversi, ma è vincolato, la forza produce una deformazione sia del corpo che del vincolo.
Un impianto osteointegrato costituisce un esempio di sistema vincolato, in cui l’osso è il vincolo che impedisce i movimenti che tenderebbero a far muovere l’impianto nell’osso.
In realtà, è dimostrato che in un sistema implantoprotesico sottoposto a carico masticatorio, l’impianto e l’osso subiscono una deformazione.
Dunque, le forze possono produrre sia effetti dinamici (movimento o cambiamento dello stato inerziale), che effetti statici (deformazioni).
Dobbiamo, quindi, innanzitutto, introdurre i concetti di massa, forza e peso. La massa è una grandezza scalare (non vettoriale).
La massa sottoposta ad una forza (vettore) risponde alla seconda legge della dinamica: F = m x a, dove F = forza (newton), m = massa (chilogrammi, kg) e a = accelerazione (m/s2 ed è una costante gravitazionale (a = 9,8 m/s2). II peso e la forza quindi possono essere espressi dalla stessa unità, newton (N).
L’effetto statico delle forze è una deformazione, nel senso che se applichiamo ad un corpo una o più forze, esso si deforma e le distanze iniziali fra gli elementi strutturali del corpo tendono a cambiare.
A seconda delle modalità e della direzione delle forze agenti, le azioni meccaniche che provocano le deformazioni vengono chiamate trazione, compressione, flessione, torsione e taglio.
Modulo, direzione e verso descrivono esattamente una forza vettoriale, ma trascurano l’effetto della stessa rispetto al punto del corpo in cui viene applicata tale forza.
Momento di una forza
Il momento di una forza esprime l’effetto di una forza su di un corpo al variare del suo punto di applicazione.
Il momento di una forza è definito come un vettore la cui grandezza è data dal prodotto dell’intensità della forza per la distanza perpendicolare (braccio del momento) dal punto di applicazione alla linea di azione della forza.
Importanza del momento di una forza occlusale in Implantologia
Il carico causato dal momento, provoca stress di torsione, particolarmente nocivi alle componenti dell’impianto.
I momenti di torque o di curvatura, che gravano sugli impianti possono causare il riassorbimento osseo, l’allentamento di viti protesiche e/o la frattura delle componenti implantoprotesiche
Biomeccanica in implantoprotesi
Le forze che agiscono sugli impianti dentari vengono descritte come vettori, in quanto possiedono grandezza, direzione e verso.
Una forza applicata ad un impianto dentale è raramente diretta assolutamente in direzione longitudinale lungo un singolo asse.
Un contatto occlusale singolo è dato più comunemente da una forza occlusale tridimensionale.
Infatti, esistono in implantoprotesi tre assi clinici di carico dominanti: mesiodistale, vestibololinguale e occlusoapicale appartenenti a tre diversi piani (orizzontale, sagittale, frontale) e la determinante primaria nello stabilire la direzione del carico è data dai carichi occlusali: masticatori e parafunzionali.
Ciascun contatto occlusale su un restauro implantare dovrebbe essere scomposto dall’operatore nelle sue parti componenti.
Consideriamo l’esempio di un impianto dentale soggetto a precontatto, durante l’occlusione: esso è soggetto allo sviluppo di componenti di forza trasversali potenzialmente dannose.
Anche i monconi angolati sono soggetti allo sviluppo di pericolose componenti di forza trasversali sotto carichi occlusali nella direzione del moncone angolato.
I monconi angolati sono utilizzati per migliorare l’estetica o la via di inserimento di una protesi, non per determinare la direzione del carico.
Gli impianti dovrebbero essere posizionati chirurgicamente in modo tale da facilitare l’applicazione di un carico meccanico lungo l’asse longitudinale del corpo implantare, per la massima estensione possibile.
Le forze che si vengono a determinare durante il carico occlusale possono essere compressive, tensili e divergenti (da usura o tangenziali: si tratta di forze dirette contemporaneamente in diverse direzioni) a seconda della direzione del carico rispetto all’asse dell’impianto.
La direzione del carico ha grande influenza nell’osso crestale, in quanto i carichi diretti lungo l’asse dell’impianto determinano forze compressive.
Diversamente, i carichi tangenziali determinano forze compressive controlaterali al carico e forze tangenziali omolaterali al carico.
Ad ogni forza corrisponde una deformazione del corpo sottoposto al carico:
le forze compressive tendono a spingere le masse l’una contro l’altra,
le forze tensili portano gli oggetti lateralmente e tendono ad allungarli,
le forze divergenti causano fenomeni di scivolamento.
Le forze compressive tendono a mantenere l’integrità dell’interfaccia osso-impianto, mentre le altre (tensili e divergenti) tendono a staccare o disturbare tale interfaccia.
Il modo in cui una forza si distribuisce su una superficie, si definisce stress meccanico ed è definito dalla relazione: σ = F/A dove σ = stress (psi; Pa-Pascal), F = forza (newton), A = area (metri quadrati).
Le componenti dello stress sono definite come normali (perpendicolari alla superficie) e divergenti o da usura (paralleli alla superficie e sono indicati con il simbolo τ).
Su ciascun piano esiste quindi uno stress normale e due stress divergenti; mentre, ogni elemento tridimensionale può avere il suo stato di stress descritto da tre componenti di stress normali e tre componenti di stress da usura.
Quando l’elemento stress si posiziona secondo una configurazione geometrica in cui tutte le componenti dello stress da usura sono pari a zero si dice che il sistema è biomeccanicamente bilanciato.
Quali sono gli stress massimi, ai quali L’impianto e l’interfaccia osso-impianto possono essere sottoposti
Per rispondere è necessario stabilire una relazione fra la forza, lo stress sull’impianto e sui tessuti circostanti e la deformazione e la tensione che si realizza attraverso il sistema.
Un carico applicato su un impianto può indurre deformazione sia dell’impianto che dei tessuti circostanti se la direzione degli stress non è diretta lungo l’asse lungo degli impianti.
I tessuti biologici sono in grado di interpretare una deformazione o una manifestazione ad essa connessa e rispondere con l’inizio di un’attività di rimodellamento.
Più il modulo di elasticità (Young) dell’impianto si avvicina a quello dei tessuti biologici vicini e minore è la possibilità di movimento all’interfaccia tessuto-impianto. Il titanio ha un modulo di Young prossimo a quello dell’osso.
Si deve stabilire una relazione fra la forza applicata (e lo stress), che viene imposta sull’impianto e sui tessuti circostanti e la deformazione conseguente (e la tensione-strain), che si realizza attraverso il sistema.
Legge di Hooke
La legge di Hooke esprime la relazione fra lo stress e la tensione; nella sua forma più semplice viene matematicamente descritta come: σ = E ε.
Diversamente, per gli stress divergenti e per le tensioni divergenti, dove la costante di proporzionalità non è il modulo di elasticità, ma è il modulo di rigidità (G) è espressa dalla relazione: τ = G γ dove τ = stress divergente (Pa; psi), G = modulo di rigidità (Pa; psi) e γ = tensione divergente (senza misura).

Il modulo di taglio, o modulo elastico tangenziale o di scorrimento o di rigidità trasversale, è la costante di Lamè, che esprime il rapporto sforzo-deformazione tangenziali.

Il modulo di taglio viene considerato un parametro derivato, esprimibile in due parametri elementari: il modulo elastico (normale, detto anche “modulo di Young”) e il coefficiente di Poisson.
Quest’ultimo rappresenta come il materiale si restringe o si dilata trasversalmente in presenza di uno stress monodirezionale longitudinale, si indica con la lettera greca ν (“ni”).
Quindi lo stress è direttamente proporzionale alla tensione.
Lo stress che si sviluppa in un sistema implantare e nei circostanti tessuti biologici può avere un’influenza significativa sulla longevità a lungo termine degli impianti e l’obiettivo del piano di trattamento dovrebbe essere di minimizzare ed eventualmente distribuire lo stress meccanico all’interno dell’impianto e nell’osso contiguo.
Quando due corpi si urtano in un piccolo intervallo di tempo (carico d’impatto), si realizza una deformazione nella protesi, nell’impianto e nell’interfaccia contigua.
La rigidità relativa delle componenti del sistema implantare controlla la risposta del sistema ai carichi di impatto.
Maggiori sono i carichi di impatto, maggiore è il rischio di fallimento dell’impianto e della protesi.
E dunque importante comprendere i meccanismi di distribuzione delle forze per evitare complicanze.
La risultante di una forza su un punto tende a produrre movimenti di rotazione o di piegamento attorno a quel punto.
Questa risultante di carico viene anche definita come torque o carico torsionale e può essere piuttosto distruttiva nei confronti del sistema implantare.
Le tre coordinate cliniche precedentemente descritte (asse occluso-apicale, vestibololinguale, e mesio-distale) possono dar luogo a un totale di 6 movimenti di micro-rotazione (6 risultanti) con conseguente stress alla cresta alveolare e all’interfaccia impianto-osso e inevitabile perdita di osso.
La magnitudo dello stress e la direzione dello stesso
La magnitudo dello stress e la direzione dello stesso influenzano la risposta del sistema implanto-protesico al carico.
Per quanto riguarda la magnitudo dello stress essa dipende da due variabili: l’ampiezza della forza e l’area sezionale in cui la forza si dissipa.
Mentre, per quanto riguarda la direzione dello stress i carichi diretti lungo l’asse longitudinale dell’impianto determinano forze compressive.
I carichi tangenziali determinano forze compressive controlaterali e forze tensili omolaterali alla direzione del carico.
Ampiezza della forza
L’ampiezza della forza si può diminuire agendo sui cosiddetti amplificatori di forza: lunghezza degli sbalzi (cantilever), carichi laterali, altezza delle corone, la scelta di materiali occlusali che riducano le forze di impatto, protesi che possano essere rimosse di notte invece di protesi fisse e l’uso di dispositivi per diminuire le parafunzioni notturne.
Area funzionale
L’area o sezione funzionale è definita come quella superficie che partecipa significativamente alla distribuzione del carico e alla dissipazione dello stress.
Un aumento dell’area della superficie funzionale serve a diminuire la grandezza dello stress meccanico che grava sulla protesi, sull’impianto e sui tessuti biologici.
L’ottimizzazione di tale area funzionale si può ottenere tramite:
– Incremento del numero di impianti per unità di superficie Il valore dello stress all’interfaccia osso-impianto diminuisce all’aumentare del numero di impianti per unità di superficie;
– Selezione di una geometria ideale La geometria a spirale è un potente mediatore dei trasferimenti di carico ma non si deve sopravvalutare ed è necessario usare impianti a geometria variabile a seconda del grado di densità dell’osso disponibile;
– Modificazioni della superficie delle fixture
Scelta del tipo di ancoraggio protesi-impianto: avvitata o cementata
Per controllare in maniera ottimale le forze tensili e divergenti sono stati studiati accurati disegni di bioingegneria delle componenti implantoprotesiche.
Per evitare gli stress divergenti, dobbiamo considerare che in implantoprotesi esistono tre “bracci clinici”: altezza del restauro protesico, lunghezza degli sbalzi e la larghezza del piano occlusale.
Tre “Bracci Clinici”
L’influenza di ognuno di questi bracci deve essere ridotta al minimo per evitare il fallimento.
L’altezza del restauro protesico agisce come braccio clinico per le componenti di forza appartenenti al piano orizzontale, dirette lungo l’asse vestibolo-linguale (contatti occlusali lavoranti, carichi passivi, tongue thrust) e forze che agiscono lungo l’asse mesio-distale.
La lunghezza dello sbalzo è una delle determinati più importanti nel mantenimento dell’osteointegrazione.
Agisce come braccio per le componenti di forza appartenenti al piano frontale, dirette lungo l’asse vestibololinguale e forze appartenenti al piano sagittale che agiscono lungo l’asse occluso apicale.
Una forza di 100 N applicata direttamente sull’impianto non produce un torque, in quanto non vi sono componenti di forza laterale.
Questa stessa forza di 100 N applicata ad 1 cm di distanza dall’impianto comporterà la comparsa di una forza risultante di 100 N cm.
La stessa forza applicata a 2 cm di distanza dall’impianto comporterà la comparsa di una forza risultante di 200 N cm, e la stessa forza applicata a 3 cm di distanza dall’impianto comporta la comparsa di una forza risultante di 300 N cm.
Sbalzi o Cantilever
Inoltre, le protesi con sbalzi su due o più impianti splintati fra loro, producono una reazione che nella sua forma più semplice è uguale a quella di una leva di prima classe.
Se due impianti distanti fra loro 10 mm sono splintati insieme ed è presente uno sbalzo distale di 20 mm con un carico di 100 N, ne risulta un carico di 200 N applicato sull’impianto mesiale.
Mentre, sull’impianto distale, che agisce come fulcro, si applicherà un carico compressivo di 300 N.
Se la posizione e la quantità del carico distale rimangono uguali, ma l’impianto distale è spostato di 5 mm più avanti l’impianto anteriore dovrà resistere a 500 N; mentre, l’impianto distale, fulcro, riceverà 600 N di forza compressiva.
L’esperienza clinica suggerisce che, in condizioni ideali, gli sbalzi distali non dovrebbero estendersi per più di 2,5 volte la distanza anteroposteriore.
Larghezza piano occlusale
La larghezza del piano occlusale aumenta la risultante delle forze, per qualsiasi carico laterale.
Per riassumere, un circolo vizioso in senso distruttivo può conseguire alle risultanti di carico e comportare perdita di osso crestale.
Man mano, che si realizza la perdita di osso crestale, aumenta automaticamente l’altezza occlusale.
Con il braccio dell’altezza occlusale aumentato, aumenta la microrotazione vestibololinguale che, a sua volta, causa ulteriore perdita di osso crestale.
Il ciclo continua e se questa situazione biomeccanica non viene corretta essa conduce l’impianto al fallimento da fatica ciclica.
Fatica ciclica
Il fallimento da fatica è influenzato da diversi fattori quali: 1-biomateriali, 2– geometria della struttura, 3– magnitudo della forza, 4– numero dei cicli.
Biomateriali
Il comportamento dei biomateriali è caratterizzato graficamente da quella che viene detta la curva sforzo-deformazione. Il livello di stress al disotto del quale un biomateriale può essere caricato indefinitamente viene detto limite di tolleranza.
Le leghe di titanio posseggono un limite di tolleranza più alto a confronto con il titanio commercialmente puro.
Geometria Implantare
La geometria di un impianto influenza il grado a cui può resistere in seguito all’applicazione di carichi torsionali e di piegamento e, in ultima analisi, alla frattura da fatica.
La geometria a spirale (spirale logaritmica) è un mediatore potente dei trasferimenti di carico.
Per moltissimi anni, nel passato, sono stati inseriti impianti di più svariati disegni, ma, oggi, il disegno più sicuro dal punto di vista biologico è la vite.
Gli impianti a vite autofilettanti (self tapping) hanno percentuali di successo superiori.
Un fattore, quindi, influenzante o meno il fallimento od il successo implantoprotesico è determinato dal disegno dell’impianto
Gli impianti a sezione circolare a vite garantiscono una maggiore superficie funzionale in grado di trasmettere carichi compressivi all’interfaccia con l’osso.
Anche piccole modificazioni dello spessore dell’impianto possono comportare la comparsa di differenze significative nell’assorbimento e trasmissione del carico, in quanto, spesso, l’anello debole nel design di un sistema implantare è dato dalla differenza fra il diametro interno ed esterno della fixture.
Se una forza viene applicata ad una certa distanza da un anello debole in un sistema implantoprotesico, dalla risultante dei carichi può conseguire un fallimento torsionale o da piegamento.
La concentrazione dello stress e, in definitiva, il fallimento possono realizzarsi se è presente una sezione insufficiente per dissipare adeguatamente le forze elevate (seconda legge di Wolff).
La geometria di un impianto influenza il grado a cui può resistere in seguito all’applicazione di carichi torsionali e di piegamento.
La conoscenza dei principi della tensegrità aiuta molto nella comptensione dell’importanza della geometria implantare.
La geometria include anche lo spessore del metallo o dell’impianto: la frattura da affaticamento, infatti, è legata alla quarta potenza della differenza di spessore. Un materiale due volte più spesso nella parete sarà circa 16 volte più forte.
Gli impianti di Branemark furono i primi ad avere un diametro di 3,75 mm.
Oggi, gli impianti dentali riflettono il principio scientifico, secondo cui, un aumento del diametro dell’impianto è in grado di aumentare adeguatamente l’area su cui le forze occlusali possono essere scaricate.
Questo lo osserviamo negli Halo Implant, prodotti dalla FMD dental su design del dr. Andrea Bernardis.
HALO implant by Dr. Andrea Bernardis, FMD dental , Italy

L’anatomia dell’osso crestale, tra l’altro, limita il diametro degli impianti a 5-6 mm.
Quindi, sono necessarie alcune innovazioni del design implantare nella regione crestale per aumentare la superficie funzionale in questa regione anatomica. Noi le abbiamo realizzate.
Più precisamente, per aumentare la superficie funzionale di un impianto si possono modificare alcuni parametri della geometria delle spire: il passo delle spire, la forma delle spire e la profondità delle spire.
Il passo delle spire è la distanza fra due spire adiacenti misurata parallela con il suo asse.
Più piccolo è il passo, maggiore è il numero di spire sul corpo implantare per unità di lunghezza, e quindi maggiore sarà la superficie funzionale per unità di lunghezza del corpo implantare.
Le spire implantari
Le forme delle spire degli impianti dentali sono principalmente: spire standard a V, spire a sperone e spire quadrate. Tali forme determinano una differente distribuzione dei carichi.
In ingegneria meccanica la forma con spire standard a V viene detta fixture ed è usata essenzialmente per fissare parti di metallo insieme, non per trasferire carichi.
La forma a sperone è ottima per tirare i carichi all’esterno; mentre, negli impianti dentali la forma delle spire deve trasmettere i carichi all’interno della fixture sotto forze compressive o tangenziali, intrusive.
Nei carichi divergenti le spire scaricano le forze elevate nell’osso in relazione all’angolo che si forma tra la forza assiale e la perpendicolare alla forza divergente e dipende quindi dall’inclinazione della spira.
Sapendo che la forza divergente è uguale alla forza assiale moltiplicata per il seno dell’angolo di inclinazione della spira è chiaro che meno è inclinata la spira minore sarà l’angolo e minore sarà la forza dei carichi divergenti.
La spira quadrata fornisce una superficie ottimizzata per la trasmissione dei carichi intrusivi, compressivi e divergenti che sono i peggiori per l’osso.
Per aumentare la superficie funzionale si può agire anche sulla profondità delle spire.
La profondità della spira è la distanza fra il diametro maggiore e il diametro minore della spira.
Questa profondità delle spire si può variare lungo il corpo dell’impianto, per fornire una maggiore superficie funzionale nelle regioni di maggiori stress, cioè sulla zona crestale dell’osso alveolare come documentato da numerosi studi.
E’ utile usare una forma a cono invertito standard quadrata sperone del corpo di un impianto a vite, che produce un aumento della profondità delle spire proprio sulla parte più coronale dell’impianto.
Il corpo dell’impianto a conicità inversa assicura una maggiore area di superficie filettata al livello del modulo crestale e ripartisce più uniformemente il carico lungo l’asse longitudinale dell’impianto.
Anche la magnitudo e la direzione della forza influenzano il successo o il fallimento di un sistema implantoprotesico.
Mentre la superficie funzionale è determinata dal numero degli impianti, dal loro diametro, dalla lunghezza, dalla forma, e dalla densità ossea che determina l’area di contatto e dalla resistenza dell’osso.
La magnitudo e la direzione della forza sono determinate dal sesso, dall’età, dalla localizzazione sull’arcata, dall’altezza della corona, dalla dinamica masticatoria e dalla parafunzione.
La magnitudo della forza può essere ridotta, considerando anche la posizione degli stessi impianti nell’arcata (si debbono distribuire i carichi maggiori nei settori posteriori rispetto all’applicazione di carichi minori nei settori anteriori), aumentando la superficie disponibile per resistere all’applicazione dei carichi (maggior numero di impianti o uso di impianti di maggior diametro).
Un’arcata quadrata ha una minor distanza antero-posteriore fra gli impianti spintati e dovrebbe possedere sbalzi più piccoli.
Un’arcata affusolata presenta una distanza anteroposteriore maggiore e può avere sbalzi più lunghi.
La rotazione vestibolo-linguale può essere significativamente ridotta restringendo il piano occlusale e/o correggendo l’occlusione per garantire contatti più centrici (regola fondamentale-contatti puntiformi).
Fallimento da fatica
Il fallimento da fatica infine, si può ridurre riducendo i cicli di carico.
La durata dell’applicazione di una forza può determinare il risultato del sistema implantare.
Forze relativamente basse, applicate ripetitivamente per un lungo tempo, possono condurre ad un fallimento da affaticamento dell’impianto e della protesi.
Bisogna quindi cercare di eliminare le abitudini parafunzionali e ridurre i contatti occlusali eccentrici.
Se un impianto è sottoposto ad uno stress molto alto, possono essere tollerati solo alcuni cicli di carico prima che si fratturi. Al contrario, può essere sopportato un numero infinito di cicli di carico quando i livelli di stress sono bassi.
Per le superfici implantari e il loro rapporto con l’area funzionale, la ricerca, in campo implantoprotesico, è protesa verso la realizzazione di superfici implantari “intelligenti”, capaci di promuovere e accelerare l’osteointegrazione, riducendo i tempi di attesa necessari per poter caricare protesicamente l’impianto.
L’obiettivo è ottenere una riparazione tissutale perimplantare, più rapida possibile, aumentando la forza di interconnessione osso-titanio e riducendo, al minimo, la percentuale di insuccessi.
Attualmente, esistono diversi trattamenti implantari di superficie: titanio machined, titanio plasma spray, titanio sand-blasted, titanio acid-etching e titanio idrossiapatite coated.
Ossido di Titanio Nanotubi
La ricerca mira a creare uno spessore controllato di ossido di titanio (es. nanotubi) sulle superfici implantari e alcuni studi condotti sui fattori di crescita ossea dimostrerebbero che le proteine osteogenetiche presenti in circolo ubiquitariamente inducono una accelerazione del processo di osteointegrazione.
È ovvio che controllare la microgenetica di superficie di questo strato superficiale può influenzare l’adesione delle proteine sulla superficie implantare.
Questo induce una migliore osteointegrazione alla interfaccia osso-impianto e aumenta così l’area funzionale del sistema e la resistenza biomeccanica ai carichi funzionali.
Infine, per ottimizzare l’area funzionale di un sistema implantoprotesico è importante anche la scelta del tipo di ancoraggio implanto-protesi.
Ancoraggio di una protesi su impianti
La scelta tra la soluzione avvitata e quella cementata, riguarda soltanto la connessione fra protesi e moncone e non quella fra moncone ed impianto (abutment-fixture); il moncone viene, infatti, sempre avvitato.
Noi consigliamo di usare protesi avvitate in quanto si avrebbe la possibilità di rimuovere la protesi stessa e un eventuale allentamento della vite preserverebbe l’impianto dal sovraccarico.
Ma di questo ne parleremo in un capitolo dedicato valutando tutte le possibili variabili, facendo chiarezza sull’orientamento attuale e su quello futuro.